Può ancora sorprendere il cinema, in un epoca di tecnicismi ed effetti speciali, nella quale la produzione cinematografica è standardizzata e sottoposta a precisi iter industriali?
Non è scopo di Boyhood di Richard Linklater quello di stupire o meravigliare, ma sicuramente sorprende, con un esperimento narrativo che non ha precedenti nel cinema di narrazione.
Il film racconta circa 10 anni della storia di una famiglia, anzi del ragazzo più piccolo di tale famiglia, Mason (Ellar Coltrane), che conosciamo bambino all'inizio del film, insieme alla sua sorella maggiore Samantha (Lorelei Linklater) e alla madre Olivia (Patricia Arquette) in un momento difficile della loro vita. Intuiamo presto che il padre Mason Senior (Ethan Hawke) non solo è assente per lavoro, in Alaska, ma in realtà il rapporto tra lui e Olivia è finito da tempo e la donna sta meditando il trasferimento, per potersi avvicinare alla madre e da lei avere un'aiuto per crescere i figli e rifarsi una vita, completando gli studi, per avere l'opportunità di una vita che non sia mera sopravvivenza.
Il racconto proseguira raccontando la semplice vita dei personaggi, dai problemi di adattamento agli ambienti in cui si trovano a vivere, la scuola per i ragazzi, studio e lavoro per la madre, ai problemi di rapporti interni, passando per la ricostruzione del rapporto tra il padre e i figli, e dai matrimoni infelici della madre. Quella vita che normalmente sarebbe poco interessante narrare al cinema.
Boyhood stupisce perché gli anni che passano sono veri, nel senso che le riprese del film sono state distribuite nell'arco di dodici anni, con attori e troupe che si sono incontrati a intervalli di più o meno un anno. In un film che concentra le sue riprese in un paio di mesi, vengono ingaggiati più attori per interpretare un personaggio di cui viene narrata la vita dalla scuola elementare al diploma. Qui è sempre lo stesso attore, così come per la sorella.
Una scommessa che solo l'averla pensata merita un applauso. Senza volere pensare a eventi tragici, mille e più ostacoli potevano frapporsi tra l'inizio e le fine programmata delle riprese, anche solo il legittimo annoiarsi dei piccoli attori di questo appuntamento annuale.
L'effetto è molto simile a quello che si ottiene con una maratona di film di Harry Potter e ritengo che non sia un a caso che uno degli eventi narrati nella vita dei ragazzi sia una delle tante “nottate Harry Potter” organizzate in occasione dell'uscita di uno dei romanzi (Il principe mezzo sangue nello specifico).
In realtà le icone della cultura popolare sono un utile puntello nei dialoghi, per mostrare senza didascalismi il tempo che passa, fornendo in modo immediato le coordinate temporali, con i personaggi che discutendo se sia più figo Lord Greviuous di Darth Vader, informano lo spettatore con velocità del momento in cui sta avvenendo la discussione.
Altri interessanti strumenti di passaggio temporale sono le tecnologie, i ragazzi passano dai Game Boy alle Nintendo 3DS, gli schermi a tubo catodico diventano LCD, i cellulari diventano smartphone e i ragazzi passano dal momento dell'entusiasmo iniziale per i social network al riflusso e all'interrogarsi sulla loro invasività.
Quello ne è venuto fuori è un film di cui non è solo il regista a essere autore ma, ed è anche lo stesso Linklater ad ammetterlo, un film che “è il frutto di una collaborazione con il tempo”.
Una produzione in cui non c'è stata la meticolosa redazione di un piano di lavorazione, né la stesura di una dettagliata sceneggiatura.
Linklater è riuscito a convincere dapprima i suoi finanziatori, la IFC Films, poi i cast tecnici e artistici che era possibile realizzare un film imprevedibile, che sarebbe stato scritto e definito durante la lavorazione e che solo l'accostamento del girato d 144 mesi (non consecutivi) avrebbe potuto scrivere e modificare in itinere (con la sua collaboratrice di lunga data Sandra Adair) la programmazione. Nessun’altro all’infuori del gruppo sapeva cosa stessero creando durante i 144 mesi di produzione, e solo una volta terminate le riprese finali, si è giunti alla prospettiva complessiva del film.
Al di là della tecnica cinematografica, della evoluzione del racconto, Boyhood diventa quindi un'esperienza cinefila unica.
Innanzittuto perché non è un cinema verità, né un progetto documentaristico come 7 – Up di Michael Apted, che forse è l'unico esempio di qualcosa che si avvicina agli scopri di Boyhood. Il film di Linklater è invece puro cinema di narrazione, tesa a ricostruire la vita di ogni giorno, ma pur sempre utilizzando tutti i meccanismi della finzione e dell'artificio scenico. Veri attori ai quali non è chiesto di essere se stessi, ma di recitare autentici personaggi.
Perché le storie del cinema, per tentare di avvicinarsi alla rappresentazione della realtà devono ricostruirla, plasmarla a loro uso e consumo, vincendo delle sfide. In questo caso non si può realmente dire se è stata vinta la sfida del passare inesorabile del tempo. In realtà è certo che il film che è risultato fuori è sicuramente diverso da qualsiasi aspettativa avesse chi ha cominciato a lavorarci 12 anni fa. Non migliore, né peggiore, solo diverso.
Un film da vedere, comunque la pensiate.