Un film di Peter Jackson
Scritto da Fran Walsh, Philippa Boyens, Peter Jackson, Guillermo del Toro - con Martin Freeman, Richard Armitage, Ian McKellen, Hugo Weaving, Cate Blanchett, Elijah Wood, Orlando Bloom,Evangeline Lilly, Christopher Lee, Benedict Cumberbatch, Luke Evans, Ian Holm, Andy Serkis, James Nesbitt, Aidan Turner - Durata: 169 minuti - Distribuito da Warner Bros

Finalmente il primo dei tre film che Peter Jackson ha ricavato dal romanzo Lo Hobbit di J.R.R. Tolkien è arrivato.
Sinceramente a lungo tempo ho pensato che questo film sarebbe stato una eterna incompiuta, degna compagnia del Napoleone di Stanley Kubrick, del The Man who killed Don Quixote di Terry Gilliam o del Dune di Alejandro Jodorowski.
Se filmare la precedente trilogia era stata una impresa titanica, uno sforzo produttivo senza precedenti, il compito per lo Hobbit sembrava in discesa.
Tutto sommato il romanzo originale è una favola per bambini, con toni molto diversi dalla trilogia successiva, anche più complessa dal punto di vista narrativo.
Ma Peter Jackson, subentrato dopo l'abbandono di Guillermo del Toro alla sedia di regia, dopo che in un primo tempo si era ritagliato il ruolo di "semplice" produttore, non pensa mai in termini minimalisti. Non si sarebbe accontentato di un film di "risulta", realizzato sfruttando le scenografie già esistenti  a costo zero.
Intanto perché in fondo ha ragione. Lo Hobbit è il primo tassello della costruzione di un universo narrativo più ampio, che traspariva anche dalle appendici al romanzo, e tra le righe dello stesso, ma con una sua autonomia.
I personaggi e il mondo hanno una storia pregressa e grandi eventi si muovevano intorno ai protagonisti di un episodio all'apparenza minore, ma che invece si era rivelato fondamentale per il futuro della Terra di Mezzo.
Se poi pensiamo che quello che sembrava un comune oggetto magico messo lì a caso per aiutare il protagonista Bilbo, ossia l'anello dell'invisibilità, si rivelerà essere l'Unico Anello, fulcro di una saga epica e di eventi cataclismatici. ecco che l'operazione che ha compiuto Jackson è stata più che coerente con il mondo tolkieniano.
Sono un fautore della tesi per la quale per rispettare un testo, quando lo si adatta per il cinema, bisogna tradirlo.
I tradimenti di questo caso sono quindi bene accetti, perché sa un lato sono espansioni di concetti, eventi o personaggi presenti nel libro o nel mondo tolkeniano (Radagast o la Riunione a Gran Burrone per esempio) oppure da un altro, sono innesti coerenti con la versione cinematografica dello stesso universo.
Sì perché Peter Jackson è un cineasta vero, che conosce il linguaggio del cinema e le sue regole.
Non è un artista "puro", perché deve anche mediare con le esigenze di una industria, che concede i suoi finanziamenti a progetti con caratteristiche ben precise.
I film devono avere delle chiare dinamiche "protagonista/antagonista". Ecco quindi che se da un lato Bilbo è protagonista di un suo percorso di crescita personale, coprotagonista con proprie intenzioni da sviluppare diventa Thorin che ha nell'accresciuta figura di Azog l'antagonista perfetto.
Rispettoso del canone è il confronto tra Bilbo e Gollum, che d'altra parte questa dinamica conteneva già da se.
Intollerabile sarebbe per Hollywood un film che non contenesse un ruolo femminile. Dato che nel romanzo non ne esistevano, l'inserimento di Galadriel da un lato assolve, sia pur per poco, a tale scopo, da un altro rafforza la mitologia dell'universo narrativo cinematografico.

Commercio e filologia. Jackson quadra il cerchio, perché non aggiunge posticciamente altri elementi che un qualsiasi produttore di Hollywood avrebbe indicato come da inserire nella sceneggiatura, per esempio un personaggio femminile che possa essere "l'interesse amoroso" del protagonista. Lo aveva fatto nella trilogia precedente, stavolta o si è reso conto che la cosa non avrebbe potuto funzionare, oppure è riuscito a rintuzzare l'offensiva di qualche solerte produttore, attento alle regole produttive, che in fondo avrebbe fatto solo il suo dovere d'ufficio segnalando una tale mancanza. Oppure è stato più attento alle reazioni dei "filologi integralisti guardiani della purezza tolkeniana". Chi lo sa? Penso che in ogni caso qualche purista deluso ci sarà lo stesso.

Di soldi nel progetto ne sono stati investiti tanti. Ed è interessante che progetti simili possano diventare territorio di "trasgressione", sia pur minima, rispetto a un canone narrativo industriale, che "sperimentazione", di ricerca tecnologica. Se il credito che PJ ha ottenuto con la trilogia precedente gli ha consentito di non subire infatti ingerenze eccessive sul fronte narrativo, gli ha anche consentito di sperimentare nuove tecnologie. La possibilità che dal miglioramento tecnologico possano derivare nuove forme di reddito è sicuramente un grimaldello maggiore di qualsiasi nobile proposito.
Lo dico senza falso pudore. Il cinema è una industria, ha bisogno degli artisti, dei capolavori, ma anche dei tecnici, di vendere i propri prodotti per pagare stipendi. Ricordate le trasmissioni sperimentali della TV a colori?
Venivano realizzate per eventi remunerativi come le grandi manifestazioni sportive, come Olimpiadi e Mondiali di calcio, e ci hanno consentito di avere poi il colore in tutte le trasmissioni. Ma si comincia sempre dai prodotti vendibili, al fine di avere anche un rientro del notevole investimento tecnologico.
In questo senso è da interpretare il fatto che il film non solo sia stato girato in 3D, ma che sia stata inventata una tecnologia volta a stabilizzare l'immagine tridimensionale, girando a 48 fotogrammi al secondo.
Il 3D a 24 fotogrammi si è infatti rivelato dannoso alla visione di scene d'azione, perché l'occhio umano non riesce a focalizzare prima che il fotogramma stesso sia sostituito dal successivo.
Pertanto un film in 3D che non voglia risultare pesante alla vista, con i 24 fps, è per lo più composto da piani sequenza e lente carrellate, e da poche alternanze campo/controcampo.
Una grammatica del cinema completamente diversa.
Lo scopo del 3D HFR è quello di stabilizzare l'immagine, aumentando il numero di frame acquisiti nelle riprese, per ottenere una visione più nitida e non disturbante.
A giudicare dalla resa delle scene nel film, questa tecnologia è promettente, ma ancora da perfezionare
La visione del film sembrava essere, in alcuni momenti, più veloce dei 48fps. Inoltre seppur nitida e straordinariamente piena di dettagli, la resa fotografica ricorda quella delle riprese televisive, anche in esterna. Immaginatevi gli sceneggiati di Sandro Bolchi a colori, o Zaffiro e Acciaio o il Doctor Who anni '70, con maggiore risoluzione. D'altra parte anche le fotocamere digitali all'inizio non competevano per qualità con una banale macchina compatta, con i loro limitati mega pixel, ma in breve tempo il gap è stato colmato.
Se poi pensate che l'eccesso di particolari sia difficile da gestire, che tolga "immaginazione", è una obiezione che al cinema è stata sempre rivolta.
Quando i Lumière lo inventarono, l'accusa fu di distruggere le altre arti, e non è avvenuto. Quando dal muto si passò al sonoro, i puristi gridarono allo scandalo, perché secondo loro toglieva più che aggiungere. É accaduto lo stesso con l'avvento del colore o degli effetti speciali digitali, che hanno avuto e forse hanno ancora dei detrattori.

Quello che penso è che a ogni innovazione tecnologica serva ovviamente del tempo non solo perché venga migliorata, ma anche perché da essa scaturiscano nuovi linguaggi, nuove forme espressive che la sappiano applicare con creatività.

Al di là di ogni altra considerazione, Lo Hobbit: un viaggio inaspettato è un buon film, piacevole da vedere e a suo modo compiuto, anche se per forza di cose non è autonomo dai successivi, che attendo con molta curiosità, visto che il temuto effetto "stemperamento della storia" non si è verificato.

Arrivederci al prossimo anno PJ!

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