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Oscar: il grande equivoco

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Senza voler dare giudizi sui film che hanno vinto e perso questa edizione degli Academy Awards, detti anche Premi Oscar, c'è però secondo me da sgombrare il campo da un equivoco storico.
Ossia: il concetto di "film da Oscar" o di "recitazione da Oscar", comunemente usato come di qualcosa di elevata qualità, è una balla colossale.

Gli Oscar sono il premio dei professionisti del cinema statunitense ad altri professionisti, per la maggior parte statunitensi e in parte stranieri.

Gli Oscar pertanto non sono un'attestazione di qualità assoluta bensì di popolarità presso i professionisti, di vendibilità del prodotto, anche della capacità imprenditoriale di chi ha prodotto il film.

Insomma vincono i film che meglio si sono saputi "vendere", e come sempre non dico queste cose con sdegno, ma con la consapevolezza che l'industria debba vivere di questo, per pagare stipendi alla marea di persone che vivono con il cinema come chi svolge lavori "normali", non solo per quella punta dell'iceberg che sono "i divi".

Oltretutto i criteri di vendibilità sono del tutto statunitensi e niente affatto universali. Ogni paese ha i suoi premi alla propria cinematografia, ma gli statunitensi sono riusciti, con la grande diffusione del loro cinema a livello mondiale e a una efficace promozione, a rendere nella considerazione comune il premio Oscar un valore assoluto, quando dovrebbe essere relativo e contestualizzato.

Il "miglior film" è il miglior film prodotto e distribuito negli USA, tanto che i film di altre cinematografie che hanno vinto questo premio ci sono riusciti perché avevano distributori o co-produttori statunitensi (esempio La vita è bella, distribuito dall'aggressiva Miramax).

Non esiste, al momento, un premio alla cinematografia mondiale. Ci sono i BAFTA (cinema UK), i Cèsar (Francia), i nostri David di Donatello e ciascuno di questi premi ha la categoria di "miglior film straniero".

Poi a ognuno il suo parere su vincitori e vinti, ma per favore, non parliamo di qualità quando parliamo di Premi Oscar. Capiterà pure che vincano prodotti fatti bene, ed è inutile negare che il film medio statunitense sia un buon prodotto industriale realizzato con grande professionalità. Ma il film che vince l'Oscar non è il miglior film al mondo, ma solo il "campione locale".

Ci vorrebbe una sorta di Coppa dei Campioni del cinema? Non credo sia possibile. Tutti i premi che ho citato sono i premi delle associazioni di categoria che giustamente devono premiare i loro associati.
Questa è l'industria del cinema. Punto.

Per la qualità, sempre giudicata con criteri giustamente soggettivi, dovrebbero esserci i festival indipendenti (Cannes, Venezia, Sundance etc etc...) ma questa è un'altra storia...

Nebraska

Film: Nebraska

Regia di Alexander Payne - con Bruce Dern, Will Forte, Stacy Keach, June Squibb, Bob Odenkirk - Drammatico - USA - 121’ - Distribuito da Lucky Red

A me Nebraska è piaciuto. Molto.

La recensione potrebbe anche finire qui.  Se non fosse che vorrei anche dirvi perché.

Nebraska

Nebraska

Bruce Dern, caratterista anni '70 che, nonostante le decine di ruoli ricoperti in carriera, collegherò per sempre in prima istanza al film di fantascienza The Silent Running (in Italia arrivato con l'improbabile titolo 2002: la seconda odissea), interpreta Woody, un anziano ex tutto: Ex meccanico, ex ma forse ancora alcolizzato. Padre imperfetto. Marito pieno di pecche. Inoltre ha probabilmente il morbo di Alzahaimer galoppante. In ogni caso Woody ed è fonte di tormenti, stress e imbarazzo per i suoi familiari.

Figuriamoci poi quando si mette in testa, complice un biglietto pubblicitario, di aver vinto nientemeno che un milione di dollari, da reclamare a Lincoln, Nebraska. Ossia a più di 1000 km da Billings, Montana, dove vive con tutta la sua famiglia.

Da par suo il figlio David (Will Forte) è messo solo poco meglio. Commesso in un negozio di elettronica di consumo, trascina stancamente la sua esistenza, in una perenne "pausa di riflessione". È una di quelle persone per cui si potrebbe dire che la vita è qualcosa che non li tocca, perché sono impegnati a fare altre cose da un'altra parte. Più che altro a rimuginare nel caso di David.

Gli unici abbastanza posati nella famiglia sembrano la madre Kate (June Squibb) e il fratello giornalista televisivo Ross (Bob Odenkirk) che ovviamente non assecondano la fantasia di Woody.

Ma David, da par suo, più che credere alla fantasia, ritiene opportuno accompagnare il padre nel suo viaggio. Per fare o dire qualcosa. Qualunque cosa.

Il viaggio sarà in realtà più che problematico. Woody ha la tendenza ha mettersi nei guai. Così comincia la parte road movie del film. Lenta, lentissima, girata giustamente alla velocità dei limiti orari, in un paesaggio così monotono che quasi non si distingue il movimento dalla immobilità.

Il bianco e nero è assolutamente funzionale alla narrazione di un paesaggio che in ogni caso non conoscerebbe il colore. Così come il ritmo lento. Rispetta in pieno i ritmi di luoghi in cui l'evento del giorno è il ritorno in paese dei un ex meccanico, probabile vincitore (ma è una balla, perché ci credono tutti???), nel suo paesino.

Accade infatti che il viaggio porti padre e figlio nella loro nella città di origine Hawthorne, sembra nel Nebraska. Lì verrà organizzata una riunione familiare del tutto sui generis e molto estemporanea, dove vecchi nodi arriveranno al pettine.

Tra tutti, i complessi rapporti familiari di Woody con i fratelli, nonché l'irrisolta questione di una vecchia pompa, forse trafugata dall'ex socio Ed Pegram (Stacy Keach).

La visione del volto ancora cattivo di Stacy Keach, dietro il microfono di un karaoke in un sonnacchioso diner di provincia, vale da sola tutto il film. Il tempo passa per tutto e tutti. Non c'è pietà per niente e nessuno.

Placido, ben fotografato e girato, Nebraska scorre e va, raccontando la storia di crescita di David, unico personaggio che in realtà ha un percorso da compiere. Gli altri sanno già cosa sono diventati, cosa vogliono essere, cosa non saranno più.
David ritroverà il padre e non solo. Forse quella voglia di vivere la vita che sembrava non avere mai avuto.

Un altro, innegabile pregio del film di Alexander Payne è la verità. Tutti i volti, i corpi obesi, i locali e le strade polverose sono mostrati senza filtro, senza laccatura hollywoodiana, nonostante la scelta del bianco e nero possa sembrare "coprente". Non c'è nulla di artificioso in Nebraska.

Da vedere al cinema.

 

Film: C'era una volta a New York

Tit. orig. The Immigrant - Regia di James Gray - con Marion Cotillard, Joaquin Phoenix, Jeremy Renner - Drammatico - USA - 120’ - Distribuito da BIM
C'era una volta a New York

Presentato al Festival di Cannes 2013 Concorso, C'era una volta a New York, racconta la storia di due sorelle, Ewa (Marion Cotillard) e Magda (Angela Sarafyan) Cybulski  che nel 1921 lasciano la natia Polonia e navigano verso New York. Quando raggiungono Ellis Island i medici scoprono che Magda è malata e le due donne vengono separate. Ewa si ritrova nelle pericolose strade di Manhattan, mentre sua sorella viene messa in quarantena. Sola, senza un posto dove andare e nel disperato tentativo di ricongiungersi con Magda, Ewa diventa presto preda di Bruno (Joaquin Phoenix) che la prende con sé e la spinge a prostituirsi. L’arrivo di Orlando (Jeremy Renner), illusionista e cugino di Bruno, le ridona fiducia e speranza, ma Ewa non ha tenuto conto della gelosia del suo uomo… The Immigrant (trascuro l'orribile titolo italiano, appioppato per imparentarlo con C'era una volta in America di Sergio Leone, che racconta tutt'altro) è un melò classico, nel quale alle intenzioni dei personaggi si affiancano i sentimenti amorosi che, nonostante circostanze ed eventi avversi, esplodono tra loro. Ewa, arrivata negli USA colma di speranze di un futuro migliore, si ritrova prostituta, e invischiata in un rapporto di odio/amore con il suo protettore, Bruno. La storia diventa un triangolo quando arriva in scena il cugino Orlando, ma più che altro perché la possibilità di riscatto immediato e di liberare subito la sorella è una occasione troppo ghiotta per farsela sfuggire. Come in tutti i melò, la situazione sfocerà in dramma, però il finale virerà verso il lieto fine. Nel mezzo, botte, lacrime, degradazione. Lo scopo è quello di raccontare una storia di quasi un secolo fa dimostrandone però la sua attualità stringente. In parte è vero. Ma quello che manca al film è l'ambientazione. Beninteso, costumi e interni sono molto curati. La vera chicca sono le riprese dentro gli originali locali di Ellis Island per esempio.

Jeremi Renner si esibisce dentro Ellis Island.

Jeremi Renner si esibisce dentro Ellis Island.

Ma vita e ambiente circostante rimangono sullo sfondo. La scelta di girare in esterni "veri" senza le sontuose ricostruzioni di Gangs of New York di Martin Scorsese o, per l'appunto, C'era una volta in America, limitano il film alla sola dimensione dei personaggi, privando la storia di un protagonista potenziale: la città di New York. Joaquin Phoenix e Marion Cotillard reggono dunque l'intero film. Sono bravissimi e bene affiatati, ma non lo salvano dal diventare uno spettacolo convenzionale, più vicino alla fiction televisiva che al cinema.

Joaquin Phoenix e Marion Cotillard

Joaquin Phoenix e Marion Cotillard

Lo Hobbit: la desolazione di Smaug. Considerazioni nerdiche

In questo momento i fan di tutto il mondo stanno guardando Lo Hobbit: la desolazione di Smaug. Alcuni stanno schiumando rabbia. Specialmente i "puristi dell'integrità tolkieniana".

Ci sono tante analogie e differenze tra opera scritta, il romanzo di J.R.R. Tolkien,  e i film. Ho accennato a qualcosa nella mia recensione pubblicata su FantasyMagazine.

Lo Hobbit: la desolazione di Smaug

Il punto fondamentale di Peter Jackson è che è un furbacchione che si è fatto finanziare con milioni di dollari le sue fan fiction tolkienane.
Però è anche vero che solo concepire questi film è un'impresa, a prescindere dal risultato.
Un vero genio del cinema ne avrebbe fatto qualcos'altro probabilmente, ma forse non avrebbe avuto la sua stessa capacità di gestione del set e della produzione. Cavolo, stare circa 16 mesi (solo di riprese) in campeggio in Nuova Zelanda per dirigere un film (sì tre, ma in pratica ne ha diretto uno solo spezzandolo in tre parti) è una roba da sclerare.
Ed è ancora impegnato nella post-produzione del terzo film su Lo Hobbit!
Insomma, tra la prima trilogia e la seconda quest'uomo ha dato almento 6-7 della sua vita a Tolkien. E tra le ricerche, le riletture, i sopralluoghi, forse arriviamo a 10.
Staremo per l'eternità a chiederci cosa avrebbe fatto Guillermo del Toro con Lo Hobbit, questo è vero.
Ma Jackson alla fine si è divertito un mondo a giocare con i suoi LEGOlas a grandezza naturale e ci spernacchia dalla Nuova Zelanda.
Lui ha potuto e noi no. E rosichiamo tutti.

Film: In solitario

Titolo originale: En Solitaire - Cast: François Cluzet, Samy Seghir, Virginie Efira, Guillaume Canet. Prodotto da Jean Cottin. Sceneggiatura di Jean Cottin, Christophe Offenstein. Regia di Christophe Offenstein - Distribuito da Lucky Red - 96'

 

In solitarioYann Kermadec (François Cluzet) è impegnato nella partecipazione alla  Vendée Globe,  una gara che vede contrapposti diversi velisti di tutto il mondo in un giro del mondo in solitario.  Non doveva essere Yann a partecipare, bensì l'amico Franck Drevil (Guillaume Canet) vincitore della precedente edizione.  Ma questi si è infortunato e Yann, all'età di 57 anni, ha l'occasione più unica che rara di compiere la sua grande impresa. Il suo spirito competitivo è al massimo.  Vedovo, a casa ha lasciato la figlia Léa (Dana Prigent), 9 anni, un po' annoiata dalla improvvisa celebrità del padre, e per nulla contenta di convivere con Marie (Virginie Efira), la nuova compagna del padre, sorella di Franck.

Nel pieno della gara succede un fatto imprevisto, di quelli che in realtà rendono interessanti le narrazioni, perché a nessuno forse interesserebbe il racconto del "normale" svolgimento di una "normale" gara.  L'imprevisto è la presenza a bordo di un clandestino, salito a bordo mentre Yann era impegnato a riparare la sua barca, sempre rigorosamente da solo. Le regole della gara sono infatti chiarissime: il navigatore se la deve cavare da solo in tutto e per tutto, pena la squalifica. E la sola presenza a bordo del ragazzo comporterebbe la squalifica immediata.  Il primo impulso, quasi rabbioso del velista è quello di buttare a mare il ragazzo, tanta è la frustrazione. Ma l'umana pietà nei confronti di un essere umano spaventato hanno per fortuna la meglio. Yann non ha il cuore di buttare nel mare tempestoso il giovane e lo nasconde a bordo, dividendo con lui le razioni di cibo, con la consegna di non farsi aiutare in nessuna delle manovre di bordo, per ossequio al principio della gara. Alla prima occasione, al primo porto sicuro, lo farà scendere.

Il ragazzo, un sedicenne di nome Mano Ixa nato in Mauritania (Samy Seghir), è mosso da altrettanta disperazione e voglia di riscatto di Yann. Non era consapevole del casino nel quale si sarebbe infilato, ma d'altra parte fugge da una realtà e da un dramma personale che l'hanno reso disperato.

Quello che rende In Solitario un film interessante non è quindi la gara, la sfida che essa rappresenta che, anzi, sembra diventare quasi una bizzarria da ricconi sfaccendati. Non è l'ennesima storia della sfida dell'uomo al mare, bensì una storia di come gli uomini possano conoscere e integrarsi, di come le culture possano trovare un punto d'incontro. Di come intenzioni in collisione possano diventare, con la conoscenza reciproca, comunione d'intenti.

In questa chiave di lettura è da intendersi anche la storia, parallela, della evoluzione del rapporto tra Léa e Marie. La crescita del loro rapporto prosegue parallelamente a quella, segreta a tutto il mondo, di Yann e Mano, con tappe anch'esse dolorose, meno estreme fisicamente, ma non che non le metteranno meno a dura prova emotivamente.

Un altro episodio che puntella la vicenda è il recupero della velista inglese Mag Embling (Karine Vanesse) in seguito al naufragio della sua barca, autorizzato dall'organizzazione. La ragazza terrà il segreto sulla presenza di Mano a bordo, e contribuirà non poco a fare da ponte tra il ragazzo e Yann.

Come verrà risolta l'intricata situazione lo dovrete scoprire da soli.

Il film tecnicamente è perfetto. Offestein è un esperto operatore abituato a condizioni estreme che è riuscito a girare un film in un set reale, ossia una vera barca, non adattata per le riprese, in mare aperto, senza l'effetto "camera a mano" tanto di moda.

Con la camera a spalla, e non a mano, è riuscito a non fare venire il mal di mare agli spettatori, a realizzare autentica narrazione per immagini sfruttando al meglio la luce, i movimenti di macchina del vero cinema, senza cedere all'impulso del verismo documentaristico.

Quello che ha prevalso è il racconto dell'esperienza umana, non il racconto di uno sport estremo. Grande merito ovviamente va all'intero cast. Tutti molto bravi, a cominciare da Cluzet, che non è una scoperta, fino ai ruoli "minori". Non c'è una rotella fuori posto, un attore o attrice che non fornisca una prova più che autentica nel film.

Un film da vedere, di corsa anche.

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