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Film: Cose Nostre - Malavita

Titolo originale: Malavita (The Family) - Cast: Robert De Niro, Michelle Pfeiffer, Tommy Lee Jones, Dianna Agron, John D’Leo. Prodotto da Virginie Besson-Silla. Produttore esecutivo Martin Scorsese. Sceneggiatura di Luc Besson e Michael Caleo (dall'omonimo romanzo di Tonino Benacquista edito da Ponte alle Grazie). Regia di Luc Besson. Distribuito da Eagle Pictures - 111'

Cose nostre - MalavitaSe c'è un seguito ideale di “The Good Fellas” (“Quei Bravi Ragazzi”) di Martin Scorsese è proprio “Malavita” (mi perdonerete se ometto l'orribile aggiunta italiana al titolo originale) di Luc Besson.
I collegamenti tra il film di Luc Besson e quello di Scorsese (qui produttore esecutivo) sono parecchi.
Come il film di Scorsese “Malavita” è tratto da un romanzo, omonimo, scritto da Tonino Benacquista, il quale nel libro ringrazia all'inizio Nicholas Pileggi, l'autore di “Il delitto paga bene” libro che è una delle fonti al quale Scorsese ha attinto per il suo film, ispirato anche alla vita del pentito Henry Hill.
In effetti domandarsi “cosa accade ai pentiti nella loro nuova vita” non è affatto peregrino.
L'incipit per esempio, in perfetto e teso stile thriller mostra subito quello che succede quando la protezione viene meno.
Poi assistiamo al viaggio notturno dell'italo americano Fred Blake (Robert De Niro), insieme a sua moglie Maggie (Michelle Pfeiffer) e i loro figli Belle (Dianna Agron) e Warren (John D’Leo) verso la loro nuova casa in una minuscola località francese della Normandia, Cholong-sur-Avre (del tutto immaginaria). Qualcosa non va sin da subito. Perché la famiglia arriva di notte, di nascosto? Scopriremo subito che si tratta della famiglia di un pentito di Mafia, i cui componenti non riescono però a tenere quel basso profilo consigliato dall'FBI, e in particolare l'agente Tom Quintiliani (Tommy Lee Jones) che comanda la squadra che ha il compito di tenerli al sicuro.

È possibile che una famiglia chiaramente statunitense fino al midollo possa passare inosservata in un paese della provincia francese, dove il pregiudizio sugli “americani” è maggiore che nelle grandi città? Se poi i suoi componenti non fanno altro che mettersi nei guai, incendiando supermercati (la moglie), gestendo racket a scuola (il figlio Warren) e seducendo giovani professori (Belle) è chiaro che la convivenza con gli abitanti locali diventa problematica.
Così la difficoltà di adattarsi all'ennesimo cambiamento, i problemi dello scontro di mentalità, si aggiungono al problema sostanziale di tutti i componenti della famiglia: non sono abituati a risolvere le cose nella maniera delle persone “civili”.
Un idraulico cerca di imbrogliare papà Fred? Botte da orbi. Una ragazza rivale ruba l'astuccio a Belle? Picchiata a sangue. E così via.
Se per una vita sei stato abituato a concepire la violenza come modo di risoluzione dei problemi, puoi davvero cambiare mentalità? Questa sembra essere la domanda centrale del film, come del romanzo.
Fred, il cui vero nome è Giovanni Manzoni, è l'unico dei quattro che non dovrebbe uscire di casa, se non dietro autorizzazione, ma riesce trova un nuovo modo per passare il tempo: scrivere le sue memorie con una vecchia macchina da scrivere trovata tra le cianfrusaglie. La cosa gli attira le attenzioni preoccupate non solo del suo agente di protezione ma anche in alto, negli ambienti politici preoccupati dalle rivelazioni che il libro potrebbe contenere.
Inoltre, nel suo status di “scrittore” Fred viene persino invitato dai paesani a partecipare come ospite d'onore al cineforum locale, dove si proiettano film statunitensi, dando luogo a una esilarante gag di meta-cinema.
Il film partendo dalla black-comedy, a tratti molto divertente, arriverà anche all'action e a quei momenti di violenza esagerata, pieni di sparatorie ed esplosioni varie, a cui ci hanno abituato i film di Besson. Questo perché la Mafia non dimentica e in seguito a circostanze tutte da scoprire, il nucleo familiare, messo a dura prova dallo “scontro culturale” con i francesi, si ricompatterà quando dovrà affrontare un feroce commando di killer mandati dagli USA.
Non ci sono grosse differenze stavolta tra parola scritta e cinema. Nel film sono inventate alcune situazioni che rendono più esplicito, sin dall'incipit, il modo violento di risolvere le controversie di Fred ma, a parte questo, i rapporti familiari, i caratteri dei personaggi e lo scontro culturale sono già dentro il divertente romanzo. E nel libro, come nel film è presente un momento di meta-cinema, c'è un momento di meta-letteratura, nel quale possiamo leggere le memorie che Fred ha scritto.
Quello che emerge con molta chiarezza è la verità o la verosimiglianza di quanto leggiamo o vediamo al cinema.
Atteggiamenti e tic dei mafiosi italo-americani appaiono antropologicamente veritieri forse più nel libro che nel film, dove diventano quasi caricaturali. In realtà però è vero che i film di mafia, dal “Il Padrino” a “Scarface” a “The Good Fellas”, come profezie auto-avveranti, sono stati presi a modello da generazioni di delinquenti, che hanno cominciato ad assumere gli atteggiamenti dei modelli cinematografici. Un travaso che nel film vedrete in modo esplicito.
Robert De Niro non poteva che essere a suo agio nel ruolo, per il quale ha già in repertorio momenti come l'Al Capone di “Gli intoccabili” e appunto il “Jimmy Conway” del già nominato film di Scorsese, senza dimenticare il Sam "Asso" Rothstein di “Casinò”. In questo caso l'aggiunta sono i toni da commedia di “Un boss sotto stress” e “Mi presenti i tuoi?”. Insomma non poteva che essere perfetto per un personaggio scritto pensando a lui. Ma in parte sono tutti, da Michelle Pfeiffer ai due ragazzi, fino a Tommy Lee Jones, granitico ma non troppo. Perfetti i volti dei caratteristi.
Un film da vedere per aggiungere un nuovo capitolo alla ideale storia della Mafia italo-americana raccontata dal cinema.

Film: Giovani Ribelli (Kill your Darlings)

Un film di John Krokidas. Con Daniel Radcliffe, Dane DeHaan, Michael C. Hall, Ben Foster, Jack Huston, Jennifer Jason Leigh, John Cullum. Biografico - 143 min. - USA 2013. - Distribuito da Notorious

Kill-Your-DarlingsGiovani Ribelli” (“Kill your Darlings”) è la storia di quando Allen Ginsberg (Daniel Radcliffe), Jack Kerouac (Jack Huston) e William Burroughs (Ben Foster) erano “piccoli” e si ritrovarono coinvolti in una vicenda da cronaca nera.
New York 1944, Allen Ginsberg è appena stato ammesso alla Columbia University e fa la conoscenza del “bello e impossibile” Lucien Carr (Dane DeHaan), legato sia affettivamente a David Kammerer (Michael C. Hall) che in modo misterioso. Frequentando Carr il giovane Allen conosce Burroughs, che aveva abbandonato gli studi di medicina per una vita da tossicodipendente mantenuto dalla ricca famiglia, e Jack Kerouac, di nuovo vicino agli ambienti universitari dopo aver tentato di arruolarsi in Marina.

Il film vorrebbe raccontare parimenti due vicende: la nascita della Beat Generation, passando per la formazione dei tre scrittori, la loro ribellione ai rigidi schemi imposti dall'Università e della conseguente ricerca nuove forme di espressione per l'arte letteraria; la vicenda a toni noir che vide Lucien Carr uccidere Kammerer, fonte di ispirazione indiretta per “La città e la metropoli” di Kerouac e poi rievocato più direttamente in “E gli ippopotami si sono lessati nelle loro vasche”, scritto a quattro mani da Kerouac e Burroughs.
John Krokidas, regista e co-sceneggiatore insieme ad Austin Bunn fondono quindi il racconto dell'esperienza universitaria, dal punto di vista del giovane Ginsberg, a quello della sua educazione sentimentale e della scoperta della omosessualità, per poi arrivare al delitto passionale, con i toni del thriller. Ne viene fuori un film disomogeneo, che mantiene coerente solo la lucida capacità di gestire al meglio il budget, con un film che mette NY su uno sfondo sfocato perché non è possibile ricostruire in esterni gli anni '40, esaltando quindi i primi e i primissimi piani, gli scambi di sguardi e i chiaroscuri, con pochi movimenti di macchina.

Lo stile visivo da film indipendente però cozza con la scelta di non pigiare eccessivamente sul ruolo che le droghe ebbero nell'esperienza creativa. Non basta una scena che evoca Ginsberg nudo alla macchina da scrivere a rendere l'idea, ma serve a dare il bollino di produzione “trasgressiva” tanto quanto si autodefiniscono “verdi” quei prodotti da supermercato realizzati con l'1% in meno di carta.
Gratta gratta, così come scopriamo che il finto prodotto “a basso impatto ambientale” tale non è, in questo caso la scelta di casting tradisce la chiara intenzione di sfondare sul mercato con un finto cult.
Daniel Radcliffe, divo bambino che cerca con convinzione di togliersi l'aura da eterno maghetto che i film di Harry Potter gli hanno dato. Jack Huston, ultimo rampollo di una stirpe cinematografica prestigiosa, tra i protagonisti di “Boardwalk Empire”. Micheal C. Hall, protagonista del serial “Dexter”. Ben Foster e Dane Dehaan sono forse gli unici che hanno una carriera che li ha visto alternarsi tra il mainstream e l'indipendente e sono infatti i più bravi del gruppo. Anzi direi che proprio il William Burroughs di Foster è il personaggio più interessante, per quanto di secondo piano nella vicenda, perché approcciato con una recitazione che lo rende autentico, un vero trasgressore allucinato nascosto in panni borghesi, inquietante. De Haan è l'altro faro del film e si conferma molto bravo, facendo letteralmente sparire Radcliffe, che è oscurato anche da Jennifer Jason Leigh, nel ruolo di sua madre, Naomi Ginsberg, molto brava nella sempre difficile intepretazione di una malata di mente.

Un tema che avrebbe potuto rendere interessante il film rimane involuto. Ossia la differenza che passa tra chi ha una visione, una idea che fa la differenza, e i suoi contemporanei, incapaci di vedere nella stessa direzione per limiti oggettivi.
Il conflitto tra gli studenti e l'establishment universitario, rappresentato dal Professor Steeves (il bravo caratterista John Cullum, indimenticato Holling Vincoeur di “Northern Exposure”), rimane la protesta fine a se stessa di un gruppo di ragazzacci che essenzialmente non vuole studiare, per dedicarsi ad alcool, sesso e droga. Il fermento creativo e culturale non emerge con la chiarezza aspettata, o se affiora è giusto per quel paio di citazioni che anche i “tuttologi da salotto” sanno sfoggiare.
Un film finto come una moneta da tre euro. Da evitare.

 

Film: Confessions

ConfessionsConfessions (Kokuhaku) - Drammatico - Giappone 2010 - Regia di Nakashima Tetsusya Sceneggiatura: Nakashima Tetsuya dal romanzo di Minato Kanae - Interpreti: Matsu Takako, Okada Masaki, Kimura Yoshino - Fotografia: Ato Shoichi, Ozawa Atsushi - Montaggio: Koike Yoshiyuki - Colonna sonora: Toyohiko Kanahashi - Scenografia: Nishio Tomomi - Luci: Takakura Susumu - Produttore: Kawamura Genki, Ishida Yuji, Suzuki Yutaka, Kubota Yoshihiro
Produttore esecutivo: Minami Ichikawa - Durata: 106 ' - Distribuito da Tucker Film

 

 

Non dovreste leggere le sinossi o le anticipazioni sulla trama di Confessions, vi dicono veramente più di quanto sia necessario.

Il migliore approccio è non sapere nulla della storia, dei personaggi, scoprendo tutto man mano che le “confessioni” mettono in luce l'intreccio di tragedie umane narrato dal film.

Una lezione che inizia come le tante che la professoressa Yuko Morigochi ha tenuto alla sua classe scuola media è solo l'inizio lento dell'esposizione di uno spaccato di vita che esplode in modo dirompente.

Ci sono morti, delitti, tutto il senso e il non senso del rapporto tra la vita e la morte, tra la logica e l'illogica. Impossibile fermarsi su un tema e dire quale sia il più pregnante. Tutto ha senso, ogni particolare, ogni singola parola degli efficaci dialoghi, ogni fotogramma.

È un film da seguire con grande attenzione, non un facile intrattenimento quello che vi aspetta.

Il rapporto tra genitori e figli, tra insegnanti e allievi è sicuramente un tema portante. La gestione del contatto umano in una scuola in cui il politicamente corretto ha provocato più danni che benefici è lambito, ma non è fulcro della vicenda. Più che altro diventa uno strumento narrativo in momenti chiave.

I colpi di scena sono logici una volta rivelati, ma non sono mai prevedibili. Come tutte le idee geniali diventano le uniche idee possibili solo dopo che ne siamo stati edotti.

Impotenza di fronte a ciò che accade è una parola chiave che mi trova d'accordo. Vorremmo fare in modo che le cose siano diverse, ma non possiamo. Rimaniamo spettatori a cui rimane solo di fare tesoro dell'esperienza nella propria vita.

Tutto questo senza che il film sia moralista o didattico. La migliore lezione è quella che non sembra tale. Non siamo davanti a un documentario sociologico sulla disgregazione del sistema scolastico e dei rapporti umani, ma i concetti espressi non risultano meno pregnanti.

Insomma siamo davanti a una di quelle volte in cui la narrazione assume significatività maggiore o uguale a quella di un saggio.

Ad aiutare l'esposizione della storia ci sono immagini di rara eleganza, le canzoni dei Radiohead e la musica dodecafonica, un montaggio geniale che è parte integrante della narrazione.

Gli attori sono tutti bravissimi, misurati anche quando le esigenze di storia portano sopra le righe, in una sola parola: credibili. La fotografia di Ato Shoichi e Ozawa Atsushi è pura poesia.
Nakashima Tetsusya si conferma uno dei registi giapponesi di maggiore talento, un astro in ascesa nella filmografia mondiale.

Recensione pubblicata anche su http://www.thrillermagazine.it/cinema/13908

 

 

Lo Hobbit: Un viaggio inaspettato

Un film di Peter Jackson
Scritto da Fran Walsh, Philippa Boyens, Peter Jackson, Guillermo del Toro - con Martin Freeman, Richard Armitage, Ian McKellen, Hugo Weaving, Cate Blanchett, Elijah Wood, Orlando Bloom,Evangeline Lilly, Christopher Lee, Benedict Cumberbatch, Luke Evans, Ian Holm, Andy Serkis, James Nesbitt, Aidan Turner - Durata: 169 minuti - Distribuito da Warner Bros

Finalmente il primo dei tre film che Peter Jackson ha ricavato dal romanzo Lo Hobbit di J.R.R. Tolkien è arrivato.
Sinceramente a lungo tempo ho pensato che questo film sarebbe stato una eterna incompiuta, degna compagnia del Napoleone di Stanley Kubrick, del The Man who killed Don Quixote di Terry Gilliam o del Dune di Alejandro Jodorowski.
Se filmare la precedente trilogia era stata una impresa titanica, uno sforzo produttivo senza precedenti, il compito per lo Hobbit sembrava in discesa.
Tutto sommato il romanzo originale è una favola per bambini, con toni molto diversi dalla trilogia successiva, anche più complessa dal punto di vista narrativo.
Ma Peter Jackson, subentrato dopo l'abbandono di Guillermo del Toro alla sedia di regia, dopo che in un primo tempo si era ritagliato il ruolo di "semplice" produttore, non pensa mai in termini minimalisti. Non si sarebbe accontentato di un film di "risulta", realizzato sfruttando le scenografie già esistenti  a costo zero.
Intanto perché in fondo ha ragione. Lo Hobbit è il primo tassello della costruzione di un universo narrativo più ampio, che traspariva anche dalle appendici al romanzo, e tra le righe dello stesso, ma con una sua autonomia.
I personaggi e il mondo hanno una storia pregressa e grandi eventi si muovevano intorno ai protagonisti di un episodio all'apparenza minore, ma che invece si era rivelato fondamentale per il futuro della Terra di Mezzo.
Se poi pensiamo che quello che sembrava un comune oggetto magico messo lì a caso per aiutare il protagonista Bilbo, ossia l'anello dell'invisibilità, si rivelerà essere l'Unico Anello, fulcro di una saga epica e di eventi cataclismatici. ecco che l'operazione che ha compiuto Jackson è stata più che coerente con il mondo tolkieniano.
Sono un fautore della tesi per la quale per rispettare un testo, quando lo si adatta per il cinema, bisogna tradirlo.
I tradimenti di questo caso sono quindi bene accetti, perché sa un lato sono espansioni di concetti, eventi o personaggi presenti nel libro o nel mondo tolkeniano (Radagast o la Riunione a Gran Burrone per esempio) oppure da un altro, sono innesti coerenti con la versione cinematografica dello stesso universo.
Sì perché Peter Jackson è un cineasta vero, che conosce il linguaggio del cinema e le sue regole.
Non è un artista "puro", perché deve anche mediare con le esigenze di una industria, che concede i suoi finanziamenti a progetti con caratteristiche ben precise.
I film devono avere delle chiare dinamiche "protagonista/antagonista". Ecco quindi che se da un lato Bilbo è protagonista di un suo percorso di crescita personale, coprotagonista con proprie intenzioni da sviluppare diventa Thorin che ha nell'accresciuta figura di Azog l'antagonista perfetto.
Rispettoso del canone è il confronto tra Bilbo e Gollum, che d'altra parte questa dinamica conteneva già da se.
Intollerabile sarebbe per Hollywood un film che non contenesse un ruolo femminile. Dato che nel romanzo non ne esistevano, l'inserimento di Galadriel da un lato assolve, sia pur per poco, a tale scopo, da un altro rafforza la mitologia dell'universo narrativo cinematografico.

Commercio e filologia. Jackson quadra il cerchio, perché non aggiunge posticciamente altri elementi che un qualsiasi produttore di Hollywood avrebbe indicato come da inserire nella sceneggiatura, per esempio un personaggio femminile che possa essere "l'interesse amoroso" del protagonista. Lo aveva fatto nella trilogia precedente, stavolta o si è reso conto che la cosa non avrebbe potuto funzionare, oppure è riuscito a rintuzzare l'offensiva di qualche solerte produttore, attento alle regole produttive, che in fondo avrebbe fatto solo il suo dovere d'ufficio segnalando una tale mancanza. Oppure è stato più attento alle reazioni dei "filologi integralisti guardiani della purezza tolkeniana". Chi lo sa? Penso che in ogni caso qualche purista deluso ci sarà lo stesso.

Di soldi nel progetto ne sono stati investiti tanti. Ed è interessante che progetti simili possano diventare territorio di "trasgressione", sia pur minima, rispetto a un canone narrativo industriale, che "sperimentazione", di ricerca tecnologica. Se il credito che PJ ha ottenuto con la trilogia precedente gli ha consentito di non subire infatti ingerenze eccessive sul fronte narrativo, gli ha anche consentito di sperimentare nuove tecnologie. La possibilità che dal miglioramento tecnologico possano derivare nuove forme di reddito è sicuramente un grimaldello maggiore di qualsiasi nobile proposito.
Lo dico senza falso pudore. Il cinema è una industria, ha bisogno degli artisti, dei capolavori, ma anche dei tecnici, di vendere i propri prodotti per pagare stipendi. Ricordate le trasmissioni sperimentali della TV a colori?
Venivano realizzate per eventi remunerativi come le grandi manifestazioni sportive, come Olimpiadi e Mondiali di calcio, e ci hanno consentito di avere poi il colore in tutte le trasmissioni. Ma si comincia sempre dai prodotti vendibili, al fine di avere anche un rientro del notevole investimento tecnologico.
In questo senso è da interpretare il fatto che il film non solo sia stato girato in 3D, ma che sia stata inventata una tecnologia volta a stabilizzare l'immagine tridimensionale, girando a 48 fotogrammi al secondo.
Il 3D a 24 fotogrammi si è infatti rivelato dannoso alla visione di scene d'azione, perché l'occhio umano non riesce a focalizzare prima che il fotogramma stesso sia sostituito dal successivo.
Pertanto un film in 3D che non voglia risultare pesante alla vista, con i 24 fps, è per lo più composto da piani sequenza e lente carrellate, e da poche alternanze campo/controcampo.
Una grammatica del cinema completamente diversa.
Lo scopo del 3D HFR è quello di stabilizzare l'immagine, aumentando il numero di frame acquisiti nelle riprese, per ottenere una visione più nitida e non disturbante.
A giudicare dalla resa delle scene nel film, questa tecnologia è promettente, ma ancora da perfezionare
La visione del film sembrava essere, in alcuni momenti, più veloce dei 48fps. Inoltre seppur nitida e straordinariamente piena di dettagli, la resa fotografica ricorda quella delle riprese televisive, anche in esterna. Immaginatevi gli sceneggiati di Sandro Bolchi a colori, o Zaffiro e Acciaio o il Doctor Who anni '70, con maggiore risoluzione. D'altra parte anche le fotocamere digitali all'inizio non competevano per qualità con una banale macchina compatta, con i loro limitati mega pixel, ma in breve tempo il gap è stato colmato.
Se poi pensate che l'eccesso di particolari sia difficile da gestire, che tolga "immaginazione", è una obiezione che al cinema è stata sempre rivolta.
Quando i Lumière lo inventarono, l'accusa fu di distruggere le altre arti, e non è avvenuto. Quando dal muto si passò al sonoro, i puristi gridarono allo scandalo, perché secondo loro toglieva più che aggiungere. É accaduto lo stesso con l'avvento del colore o degli effetti speciali digitali, che hanno avuto e forse hanno ancora dei detrattori.

Quello che penso è che a ogni innovazione tecnologica serva ovviamente del tempo non solo perché venga migliorata, ma anche perché da essa scaturiscano nuovi linguaggi, nuove forme espressive che la sappiano applicare con creatività.

Al di là di ogni altra considerazione, Lo Hobbit: un viaggio inaspettato è un buon film, piacevole da vedere e a suo modo compiuto, anche se per forza di cose non è autonomo dai successivi, che attendo con molta curiosità, visto che il temuto effetto "stemperamento della storia" non si è verificato.

Arrivederci al prossimo anno PJ!

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Film: Skyfall

Un film di Sam Mendes. Con Daniel Craig, Judi Dench, Javier Bardem, Ralph Fiennes, Naomie Harris, Berenice Marlohe, Ben Whishaw, Albert Finney, Rory Kinnear, Ola Rapace, Tonia Sotiropoulou, Helen McCrory
Azione, durata 143 min. - USA, Gran Bretagna 2012. - Sony Pictures
 

Bond è tornato di nuovo.
Se nel 2008, con Casinò Royale, si assistette a un reboot della saga, questo film, pur continuando in un certo senso quella strada, è qualcosa di più di un "episodio della serie".
L'inizio è canonico. Una situazione colta "in medias res". Una missione in corso nella quale si suppone che Bond funga da agente di copertura. Ma qualcosa deve essere andato storto perché 007 fa irruzione in un appartamento dove trova un agente dell'MI6 ferito mortalmente e un computer portatile dal quale è stato asportato l'hard disk.  Bond e l'agente Eve (Naomie Harris) non sono da soli, poiché sono in stretto contato con M (Judi Dench, lo devo per forza dire?) e tutto il servizio segreto a Londra. Il disco viene tracciato subito e Bond si butta all'inseguimento del ladro e assassino lungo le vie, i tetti e le ferrovie di Instabul.  La sequenza è frenetica ed emozionante. Ci rendiamo conto però che se qualcosa sembra rispettare la tradizione (l'abito di Bond non fa una piega anche strapazzatissimo!) anche se ci sono anche piccoli elementi che presagiscono che forse stavolta l'esito dell'inseguimento non sarà scontato. Bond viene ferito a una spalla da un proiettile, nonostante ciò però affronta il suo avversario sui tetti di un treno. L'agente Eve, poco lontano deve sparare per colpire l'agente nemico prima che fugga. Ma il tiro non è sicuro, il rischio di colpire Bond è alto. M da perentoriamente l'ordine di sparare. La missione prima di tutto. Ed ecco che accade quanto si temeva. A essere colpito è Bond, che precipita in fiume, catapultato verso i titoli di testa e la bella canzone che porta lo stesso nome del film.

Ultimo avviso, questa non è una recensione che cavalca la novità, bensì un tentativo di analisi dei principali temi del film, pertanto anticipa il finale. Io vi ho avvisato.

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Visto che nessuno va al cinema per 10 minuti di film, e che il franchise porta il nome di 007, nessuno crede veramente che Bond sia morto. L'espediente, gia usato in Si vive solo due volte, non è nuovo. A fare la differenza è che stavolta è Bond che preferisce darsi alla macchia, leggendo da un'isola tropicale i necrologi a lui dedicati e dedicandosi alle donne e all'alcool.
Per le considerazioni fatte prima è indubbio che Bond tornerà in qualche modo in azione.
La missione che ha visto Bond “morire” è stata un totale fallimento. Due agenti morti e un hard disk con tutte le identità segrete degli agenti infiltrati dalla Nato nelle principali organizzazioni terroristiche trafugato. L'hd è criptato ma sembra che l'avversario, ancora senza nome e senza volto, sia dotato di enormi risorse ed eccezionali abilità. Incredibile ma vero è la sede dell'MI6 a essere attaccata mediante intrusione informatica. L'ufficio di M viene fatto saltare in aria e le chiavi di decrittazione rubate. È tempo che Bond torni in azione. Ci vuole il vecchio cacciatore e la sua magia.

M non fa quasi una piega nel vedere l'agente redivivo. E poi ha tanti casini da gestire. La sua leadership e la sua utilitaà sono contestate dal governo britannico, che gli ha affiancato il solerte funzionario Gareth Mallory (Ralph Fiennes), allo scopo di accompagnarla in modo onorevole alla pensione. In più una commissione governativa la sta per mettere sotto processo. La durissima M non vuole cedere perchè “non si lascia a metà una missione”, e l'aiuto di Bond potrebbe essere provvidenziale, pertanto la donna scrive letteralmente carte false pur di fare tornare 007 in attività.
È quindi un Bond pesto, ferito e parecchio confuso che torna in azione. Del tutto privo delle sue certezze, salvo di quella che c'è un nemico da affrontare, per M, al quale è legato da un affetto quasi filiale, per la Regina e la Gran Bretagna.
Un momento significativo è l'incontro con il nuovo Q. Se il Q di Desmond Llewelyn era un geek ante litteram, quello intepretato da Ben Whishaw appare a tutti gli effetti come un nativo digitale.

Ben Whishaw è Q

Ma la cosa strana è che, complice la crisi economica, la dotazione di Bond concede pochissimo alla gadgetistica fantascientifca. Solo una radio trasmittente e una Walter PPK, che però è dotata di sensori che la rendono utilizzabile solo dalle mani di Bond.
Una radio e una pistola. Sarà pure che di necessità si fa virtù, ma la scelta è narrativamente significativa. Bond conta solo sui muscoli, la mira e la capacità di infiltrarsi.
Le tracce dell'hard disk portano a Singapore e in una sequenza di enorme bellezza visiva Bond trova l'agente che lo aveva rubato. Non riesce però a catturarlo, perché il nemico gli sfugge letteralmente tra le dita, precipitando verso la morte.
L'indizio che però si lascia dietro, il gettone di un casinò di Macao, consente alla storia di progredire. L'approdo di Bond al casinò ricorda le pacchianissime entrate di Roger Moore, e il luogo è molto in tema, kitch fino all'inverosimile, con tanto di fossato con varani di komodo. E dove c'è un casinò, oltre a esserci soldi e champagne, ci sono anche le belle donne, una in particolare, Sévérine, con la quale Bond ha incrociato lo sguardo la sera prima.

Sévérine e Bond

È il contatto sperato, e a Bond non resta che l'ingrato compito di infiltrarsi tra le sue lenzuola, sperando di redimerla e di convincerla a tradire il suo capo, per il Re, la Regina, il Tea Time e tutto il Regno Unito. Se la fatica del lavoro di agente Doppio Zero fosse solo quella di frequentare donne come Bérénice Marlohe il concorso lo affronterei anche io.
Tutto facile, fin troppo. Veleggiando sul caicco di Sévérine Bond giunge finalmente al cospetto del suo nemico.
Vi ricordate le mega basi del cattivo, con vasca con squali, ampie vetrate da cui declamare soavi versi come “il mondo è mio?” Anche qui fate un bel reset.
Bond viene condotto in un'isola polverosa e in rovina e tutto il centro operativo, il fulcro dell'organizzazione, sembra essere in una stanza con un paio di server. Non serve più avere un esercito per fare una piccola SPECTRE. Silva ha le giuste informazioni e tiene i servizi segreti di tutto il mondo per le palle. 'nuff said.

Ed è proprio in questa stanza, davanti a un Bond legato, che Silva, il killer biondo platino intepretato da Javier Bardem fa la sua “pazza” e istrionica entrata in scena, con una storiella tragicomica su come sbarazzarsi dei topi che vuole essere una metafora del prossimo duello tra i due.

Javier Bardem è Raoul Silva

I cattivi dei film di Bond parlano troppo. Altrimenti sarebbe la fine del franchise. Nel mondo reale ti sparano alla nuca e tanti saluti. Ma che volete, Raoul Silva non ha degli sgherri che possano comprendere il suo piano diabolico, mentre Bond può capire eccome. In più Silva nutre la segreta speranza che Bond, sentendosi tradito da M, che ha ordinato di fare fuoco nonostante il pericolo che potesse essere colpito, possa passare dalla sua parte.
Uniamo Silva alla lunga fila di convinti. Non avete capito niente Cattivi dei Film di James Bond. Voi potete parlare, ammiccare, provarci (come fa Silva, con Bond che risponde sornione all'approccio con una frase che ha scioccato i puristi). La verità è che mentre voi vi compiacete al suono della vostra voce, Bond sta già preparando la riscossa, organizzando la fuga.
In questo caso l'arrivo della cavalleria, attirata dalla radio trasmittente. Prima però Silva ha avuto il tempo di uccidere la traditrice, sprecando un ottimo bicchiere di whisky, con il rammarico di Bond. Per il whisky ovviamente.

Scusate un attimo, ma siamo a metà film o quasi e il cattivo è già sconfitto, catturato e portato nella base di emergenza del Servizio Segreto?
Tutta la sala vorrebbe urlare a Bond, M, Tanner che no, non l'avete capito che è tutto un maledetto piano? La tragedia incombe, e tutti gli indizi sono serviti a creare un senso di attesa per il come questa si attuerà.
Mentre M, Eve e Mallory sono all'udienza della commissione governativa contro M, Silva attua il suo piano, fuggendo tra le gallerie della metropolitana londinese, a caccia della sua odiata nemica.
Ormai il piano è chiaro. Se non l'ha uccisa prima è perché la vuole umiliare, perché deve regolare il suo conto, avere la sua vendetta per essere stato, anni prima, abbandonato al suo destino e liquidato dal servizio.
Dopo aver salvato per il rotto della cuffia M, Bond non ne può più. Silva ha giocato con tutti loro senza ritegno, e se lo fanno ancora giocare alla fine vincerà.
Silva non è il solito killer scagnozzo, è braccio e mente allo stesso tempo. È come Blofeld, ma sa sparare. Se Bond si sente in vantaggio entrando in una stanza con 30 killer, davanti a Silva rischia grosso.
Serve uno scatto di orgoglio. Se la sede dell'MI6 non è sicura, se persino le auto del servizio sono rintracciabili, che fare? Un ritorno alle origini.
C'è una vecchia Aston Martin DB5 che aspetta Bond ed M. Sì è proprio quella che in Goldfinger attraversava le Alpi, alla caccia del criminale contrabbandiere d'oro. Quella che in Thunderball scoprivamo dotata di idranti, che per fortuna, essendo fuori servizio, non è tracciabile. Ed è meglio che M non faccia l'antipatica, perché il pulsante rosso del sedile eiettabile funziona ancora...


Bond e l'Aston Martin DB5

E poi, visto che Silva vuole giocare, perché non dare a Q la sua occasione di riscossa, facendogli creare una pista che porti il killer biondo platino proprio dove vuole Bond?
E Bond vuole portare lo scontro su un terreno noto, Skyfall, che è poi la vecchia residenza della
famiglia Bond, dove James ha vissuto la sua infanzia prima della morte dei genitori.
Lì troverà un alleato insperato, il vecchio guardiano Kincade (Albert Finney). E dove informatica ed elettronica hanno fallito, riusciranno la conoscenza del terreno, un po' di trappole rudimentali ed alcuni sacrifici.
È una sequenza bellissima, come costruzione, montaggio e fotografia. Tra le nebbie delle highlands scozzesi assisteremo a una scene emblematica e simbolica.
Simbolici non possono che essere il sacrificio dell'Aston Martin prima e della casa dopo, sulla quale Bond riesce a fare abbattere l'elicottero. Bond deve sacrificare tutto, ma proprio tutto contro un nemico che gli è superiore. No, non perché oltre a Silva, sono venuti circa in 10 alla fine, e con un elicottero. Sono pochini non c'è che dire. Predestinati al fallimento. Solo Silva fa la differenza.
Ma in fondo il finale sarà quello atteso, Silva morirà, ma la vera sorpresa è che la vittoria avrà un prezzo alto. M ferita a morte spirerà tra le braccia di Bond.

Judi Dench è la cinica M

È l'ultimo passaggio chiave del film. La definitiva catarsi, che costituisce un nuovo inizio per la saga. Se la presenza della stessa attrice nel ruolo di M nei due cicli, quello Brosnan e il nuovo di Craig, sembrava un elemento di continuità, ora abbiamo capito che il suo tempo è passato. D'altra parte non è la stessa M che rimproverò a Brosnan di essere un “un dinosauro sessista e misogino, residuo della guerra fredda". Al contrario, rimpiange ella stessa la guerra fredda, e il mondo di "non regole" ciniche e spietate in cui viveva, di doppi e tripli giochi, di sacrifici estremi. M, questa M, ha fatto il suo tempo, ma se il suo operato ha generato mostri come Silva, ha anche contribuito a creare Bond, un uomo che soffrendo è stato capace di cambiare e che potrà affrontare nuove sfide.
Non sarà solo, abbiamo visto il nuovo Q, e sappiate che il cognome di M cominciava proprio con la lettera M, pertanto non potrà che essere Mallory il nuovo M.
Si preannunciano dinamiche molto simili a quelle che si vedevano nei bond con Connery, dove M era interpretato dal compianto Bernard Lee, fatte di cene al club, sigari, e tutti gli elementi tipici delle virili amicizie. E forse, parole di Mallory, arriveranno tempi in cui gli agenti usciranno dall'ombra, in cui i rapporti sono più chiari. Forse.
A questo punto il bondiano doc comprende tutto. Nello stesso momento in cui scopriamo che Eve ha deciso di ritirarsi dal servizio attivo e di fare la segretaria di M, comprendiamo quello che pochi secondi dopo rivelerà a Bond: il suo vero cognome, ossia Moneypenny. Ed è un bel ritorno. Ci voleva.

Tutto è cambiato per tornare com'era. Persino la fotografia della scena finale, l'arredamento dell'ufficio di M, lasciano capire il ritorno a uno stile perduto.
Dopo aver visto Bond sanguinare e sporcarsi torneremo ai tempi dello smoking sotto la muta da sub? Non lo sappiamo. Certo è che sono molti i momenti in cui si vede che Bond tiene al suo aplomb, quando durante l'azione si sistema cravatta o polsini. Da buzzurro il Bond di Daniel Craig potrebbe tornare ad avere quella eleganza che in molti rimpiangono. Ammettiamolo, se modernità significa perdere il valore dell'eleganza e dell'educazione, meglio rimanere un po' all'antica.

Il cast di Skyfall

Se il film ha dei difetti lo è forse nella lunghezza. Ritengo che in alcuni momenti avrebbe potuto essere sforbiciato senza perdere di efficacia in più punti, forse troppo dialogati e ridondanti.
Sam Mendes è riuscito nell'impresa fallita da Lee Tamahori, ossia di dare la propria impronta a un film di franchise, valorizzandone gli aspetti canonici con personalità.
Neal Purvis, Robert Wade e John Logan hanno scritto una sceneggiatura da manuale. L'inizio in medias res è perfetto. Quando i riflettori si accendono non abbiamo l'impressione che i personaggi siano nati in quel momento, ma che provengano sia da un remoto che da un recente passato.
Le musiche di Thomas Newman citano quando e come serve il tema di Monty Norman, una eredità dalla quale solo pochi musicisti hanno avuto il permesso di affrancarsi. A differenza del suo predecessore David Arnold, che era più aderente, ai limiti del plagio, a John Barry, Newman è dotato di una propria personalità. Bella ed elegante la canzone cantata da Adele, scritta dalla stessa cantante insieme a Paul Epworth.
Il comparto attoriale è stato più che all'altezza. Craig, molto criticato all'epoca, è ormai imprescindibile da Bond, con le sue buone capacità recitative è stato capace di renderlo credibile vincendo ogni pregiudizio. Rimpiangeremo Judi Dench, un'attrice che andrei a vedere anche se declamasse l'elenco telefonico tanto è brava, al di sopra di ogni classificazione.
Professionale il gruppo di attori che da vita a Mallory, Q, Eve e al sottovalutato Bill Tanner (Rory Kinnear), personaggio che amo moltissimo. Bravo Albert Finney nel ruolo di Kincade.
Quanto all'avversario, Javier Bardem ha assolto al suo ruolo come sa, gigioneggiando parecchio. È uno stile di recitazione che non amo molto, ma forse si adatta a un personaggio molto sopra le righe, uno dei migliori della serie, il quarto nella mia classifica personale, dietro Emilio Largo, Auric Goldfinger e Ernst Stavro Blofeld. L'atteggiamento generale mi ha ricordato, mutatis mutandis, i killer Mr. Wynt e Mr. Kidd di Una Cascata di diamanti.

In conclusione posso, dopo averne analizzato i punti fondamentali, affermare che Skyfall sia un momento importante per la serie, un film che costruisce le fondamenta per nuove vie nel rispetto di una consolidata tradizione.
Bentornato Bond, James Bond. Ci vediamo tra due anni.

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